rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

RALLENTAMENTO

Tramonta l’inflazione, inizia la stretta monetaria

I mercati festeggiano il grosso passo avanti nel rientro dall’inflazione costituito dal dato americano relativo a giugno. Intravedono la fine del tunnel inflattivo che in questi tre anni ha destabilizzato le economie e cancellato un quinto del potere d’acquisto delle monete.

I mercati festeggiano il grosso passo avanti nel rientro dall’inflazione costituito dal dato americano relativo a giugno. Intravedono la fine del tunnel inflattivo che in questi tre anni ha destabilizzato le economie e cancellato un quinto del potere d’acquisto delle monete.

Nella visione dei mercati si tratta ora di completare il lavoro, ma il 90 per cento è fatto e il 10 per cento restante richiede solo un po’ di pazienza, ma è praticamente una certezza quanto all’esito.

Nella visione della Federal Reserve, tuttavia, il lavoro è completato solo per due terzi. La prima parte, la disinflazione delle cose (materie prime e manufatti), è stata il grande risultato del 2022. La seconda, la disinflazione dei servizi, è ancora in corso, ma già si intravede la possibilità di un 3 per cento per la fine dell’anno. Resta la terza, l’inflazione salariale, che sarà il compito dei prossimi mesi.

Questo vale, in generale, anche per le altre banche centrali, che però sono più indietro della Fed perché hanno vinto finora solo la battaglia sul primo fronte, quello dell’inflazione delle cose, mentre è ancora in corso quella sugli altri due fronti. Caso diverso è quello del Giappone, che continua ad andare controcorrente. La politica monetaria giapponese è stata infatti, durante la pandemia, molto meno aggressiva rispetto a quella di Stati Uniti, Europa e Regno Unito. Nell’ultimo anno, tuttavia, mentre in Occidente si è cercato di contenere l’inflazione, in Giappone si è cercato di stimolarla, con l’obiettivo di portare le attese del pubblico sul lungo termine dallo zero al 2 per cento.

Tornando alla Fed, l’ultimo miglio sarà quello più impegnativo. Finora tutto è andato bene, perché l’economia ha retto ottimamente ai rialzi dei tassi. Questi rialzi, a ben vedere, non hanno fatto altro che riportare i tassi reali da eccezionalmente negativi a neutrali. La forza d’inerzia di un’economia iperstimolata negli anni scorsi, i risparmi in eccesso accumulati dalle famiglie durante la pandemia e il persistente carattere espansivo della politica fiscale hanno sostenuto la crescita al di là di ogni previsione. La politica monetaria, a prima vista molto severa, non lo è stata poi tanto se si considera che il Quantitative tightening si è limitato a tagliare riserve bancarie di cui le banche non hanno bisogno, mentre la forte inversione della curva dei rendimenti ha in parte neutralizzato gli aumenti della parte a breve.

Da qui in avanti però le cose cambieranno. I risparmi in eccesso delle famiglie sono prossimi all’esaurimento. Le crisi bancarie di aprile, risolte sul piano patrimoniale con forti politiche di supporto da parte della Fed, lasceranno però uno strascico sotto forma di restrizioni al credito che cominceranno a produrre i loro effetti nei prossimi mesi. I tassi di policy aumenteranno ancora, a questo punto forse solo a fine luglio, e certamente non scenderanno almeno fino a dicembre.

Tassi che non scendono e inflazione che scende fanno salire i tassi reali e rendono per la prima volta davvero restrittiva la politica monetaria. Visto dalle imprese questo si traduce in pressione sui margini.

La terza fase della battaglia all’inflazione, quella sui salari, si preannuncia complicata anche per la scarsa affidabilità degli strumenti teorici a disposizione. Lo staff degli economisti della Fed utilizza modelli econometrici basati sulla curva di Phillips, Powell e il board si affidano alla curva di Beveridge.

In pratica, se ci si basa sulla curva di Phillips, per contenere l’inflazione salariale bisogna che aumenti la disoccupazione. Solo una recessione può produrre questo risultato, che è infatti previsto dallo staff tra il quarto trimestre del 2023 e il primo trimestre del 2024.

Se ci si basa invece sulla curva di Beveridge, per contenere l’inflazione salariale non occorre che aumentino i disoccupati, ma basta che si riducano le opportunità d’impiego. Se chi cambia lavoro non ha due offerte tra cui scegliere, ma solo una, il suo potere contrattuale si ridurrà senza che si riduca il livello dell’occupazione.

Se nei prossimi mesi si riuscirà a contenere l’inflazione salariale senza provocare una recessione, vorrà dire che la curva di Phillips, data per morta nel decennio scorso e resuscitata con grande vitalità negli ultimi due anni, sarà tornata in ibernazione. Se così sarà, vorrà dire che per la prima volta potranno convivere piena occupazione, politica fiscale espansiva e assenza di inflazione salariale. Molti libri di testo di economia andranno riscritti.

Se così non sarà, se cioè il raffreddamento dell’inflazione salariale richiederà una recessione (o comunque un significativo rallentamento), le borse correggeranno per un paio di trimestri, prima di riprendersi nel 2024.

Luglio e agosto potranno però vedere ulteriori rialzi azionari. I mercati metteranno insieme la discesa dell’inflazione e i buoni utili che verosimilmente le società comunicheranno nei prossimi giorni. Sono gli utili del secondo trimestre, che ha visto due mesi di ottima crescita e solo giugno in rallentamento.

Dopo questo rally estivo il mercato si prenderà una pausa, sia per ragioni stagionali sia per il rallentamento della crescita che, questa volta, coinvolgerà anche i servizi.

Guardando alla fine del 2024 non ci sono per ora seri motivi di preoccupazione. La pausa possibile a partire dall’autunno e i livelli di valutazione raggiunti suggeriscono però di approfittare del rally estivo per effettuare qualche alleggerimento.

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