Il tempo di guerra è un tempo di sospensione delle regole ed è anche per questo che le guerre accelerano i mutamenti e li rendono talvolta rivoluzionari. Le regole sospese riguardano in primo luogo la sfera politica, naturalmente. Nei paesi autoritari la potestas del sovrano, sia questo un partito, un regime o un uomo forte, diventa totale. Nei paesi a tradizione liberale viene congelata la dialettica tra maggioranza e opposizione e si formano grandi coalizioni di unità nazionale che si dotano di un’ampia libertà d’azione. Dove non si creano coalizioni formali, si creano comunque convergenze su temi di fondo. L’esempio più recente di questo tipo di convergenza è il Patriot Act americano, approvato a tambur battente nell’ottobre 2001 con una maggioranza al Senato di 98 a 1 e motivato dall’apertura della guerra al terrore dopo l’attentato alle torri gemelle. Si noti che il Patriot Act, nelle sue parti essenziali, è tuttora in vigore nonostante la guerra al terrore si sia trasformata negli anni in una guerra fredda senza vincitori né vinti.
Il tempo di guerra è un tempo di sospensione delle regole ed è anche per questo che le guerre accelerano i mutamenti e li rendono talvolta rivoluzionari. Le regole sospese riguardano in primo luogo la sfera politica, naturalmente. Nei paesi autoritari la potestas del sovrano, sia questo un partito, un regime o un uomo forte, diventa totale. Nei paesi a tradizione liberale viene congelata la dialettica tra maggioranza e opposizione e si formano grandi coalizioni di unità nazionale che si dotano di un’ampia libertà d’azione. Dove non si creano coalizioni formali, si creano comunque convergenze su temi di fondo. L’esempio più recente di questo tipo di convergenza è il Patriot Act americano, approvato a tambur battente nell’ottobre 2001 con una maggioranza al Senato di 98 a 1 e motivato dall’apertura della guerra al terrore dopo l’attentato alle torri gemelle. Si noti che il Patriot Act, nelle sue parti essenziali, è tuttora in vigore nonostante la guerra al terrore si sia trasformata negli anni in una guerra fredda senza vincitori né vinti.
Dalla sfera politica lo stato di emergenza si estende puntualmente a quella economica. Fu questo il caso, per restare all’esempio della guerra al terrore, della trasformazione della banca centrale americana in una Fed di guerra quando Greenspan, subito dopo l’attentato dell’11 settembre, si impegnò a un allineamento completo agli interessi nazionali, promise la più ampia liquidità e, tagliando aggressivamente i Fed Funds, inaugurò la lunga stagione dei tassi vicini a zero nella quale (con l’eccezione degli anni dal 2004 al 2006 e degli infelici rialzi di Powell del 2018) viviamo tuttora.
Gli ampi disavanzi fiscali e il ferreo controllo di curva da parte delle banche centrali sono quindi una costante nei tempi di guerra. Un’altra caratteristica degna di nota è che lo sforzo fiscale e monetario, durante una guerra, tende a crescere nel tempo fino alla conclusione del conflitto. Non ci si limita a uno stanziamento iniziale finanziato tipicamente con un prestito di guerra o con un’imposta di scopo, ma si prosegue con spese crescenti finanziate non più da imposte o da debito ma dalla monetizzazione diretta da parte della banca centrale.
Oggi ci troviamo a combattere due guerre contemporaneamente, quella al Covid e quella ai cambiamenti climatici. La definizione del nemico è squisitamente politica, ovvero discrezionale, anche quando è il nemico a fare la prima mossa aggressiva. Ai tempi della Spagnola del 1919-20, dell’Asiatica del 1957- 58 e della sua seconda ondata del 1968 non fu dichiarata nessuna guerra economica o politica al virus aggressore, la vita per chi sopravvisse continuò normalmente e la guerra medica si limitò quasi ovunque alle mascherine. Guardando oggi ai grafici del Pil, dei tassi e delle borsa di quegli anni non si nota nessun effetto diretto delle pandemie.
Allo stesso modo nella storia umana, costellata da cambiamenti climatici anche catastrofici (si pensi ai miti sul diluvio universale presenti in tutte le culture del Levante dall’età del bronzo), è la prima volta che si intraprende una guerra preventiva a questi cambiamenti. Fino ad oggi le guerre climatiche non erano mai state guerre al clima, ma guerre tra uomini originate o radicalizzate da epidemie o carestie a loro volta, ma non sempre, generate da cambiamenti climatici.
Covid e clima non sono solo nemici individuati convenzionalmente (un marxista direbbe che sono storicamente determinati), ma sono anche, come del resto lo è stato il terrore nei decenni recenti, nemici complessi da definire. Oggi per le borse la pandemia è praticamente finita, nella realtà ci sono aree del mondo in cui sta iniziando adesso e altre ancora in cui prosegue a ondate. Anche se ci sono ragionevoli motivi per pensare che in tempi non troppo lunghi sarà sotto controllo, ci saranno per anni focolai e varianti che forniranno la ragione (o il pretesto, da altri punti di vista) per non abbandonare le politiche dell’emergenza o comunque per allentarle molto lentamente. Ripetiamo, il Patriot Act e i tassi vicini a zero, vent’anni dopo, sono ancora tra noi e lo resteranno probabilmente a lungo.
I cambiamenti climatici, dal canto loro, sono ancora più complessi da definire. E mentre sul Covid potremo augurabilmente scrivere un giorno la parola fine (come l’abbiamo scritta ufficialmente con il vaiolo), sul clima tutto sarà più elusivo.
L’elusività è del resto una caratteristica sempre più frequente anche nei conflitti convenzionali (chi ha vinto in Afghanistan? E quando?) e lo sarà ancora di più nei conflitti del futuro, non più solo territoriali ma combattuti nello spazio e nel cyberspazio.
Per chi opera sui mercati, l’aspetto più interessante resta comunque la tendenza alla radicalizzazione presente in tutti i conflitti, almeno fino a quando non inizia a prevalere la stanchezza. Sul clima vediamo da tempo una costante accelerazione degli sforzi, ma la logica interna del conflitto spinge verso un impegno ancora maggiore nei prossimi anni. Il piano di Biden, che pure prevede più di un trilione nei prossimi 8 anni per la transizione energetica, è in questi giorni oggetto di attacchi crescenti non solo da parte dell’ala progressive del partito democratico, ma anche da parte di aree di pensiero liberal tradizionalmente esenti da radicalismo. Si veda il notevole articolo pubblicato dall’influente storico inglese Adam Tooze sul New Statesman, molto citato in America, dove Tooze insegna.
Che ci facciamo con un trilione, dice, di fronte a una sfida di questa portata? Che significano 35 miliardi (sempre in 8 anni) per la ricerca e sviluppo sull’innovazione tecnologica per la transizione energetica quando in America si spendono ben più di 35 miliardi (ogni anno, non in 8 anni) per il cibo per cani, gatti e canarini? E dov’è finita la carbon tax? E perché legare la spesa per il clima alle tasse per finanziarla? Da liberal, Tooze non ha niente contro le tasse, ma perché non spendere molto di più, senza preoccuparsi di raccogliere l’equivalente in tasse? Perché non spingersi al piano sul clima di Bill McKibben, adottato dal senatore Sanders, che stanzia per il clima 16.3 trilioni?
Di certo non arriveremo a 16 trilioni quest’anno, anche perché Biden ha una maggioranza risicata in Senato, ma possiamo stare certi che in futuro, al primo rallentamento economico o con l’eventuale conquista di una maggioranza democratica in Senato l’anno prossimo, vedremo molti altri soldi, sempre di più, stanziati per i cambiamenti climatici.
Anche in Europa, con la scelta felice dei Verdi tedeschi di candidare a cancelliere la Baerbock e quella elettoralmente infelice della Cdu di candidare Laschet invece di Söder, sarà probabile (con i Verdi junior partner della Cdu) o assolutamente certo (con i Verdi alla guida di una coalizione che escluda la Cdu) avere in Europa politiche fiscali strutturalmente più espansive per finanziare una transizione energetica ancora più radicale e veloce.
Concludiamo con due riflessioni pratiche. La prima è che, finché non vedremo un’inflazione vivace (stabilmente sopra il 3 per cento), vedremo molti altri soldi piovere sull’economia globale. La questione del clima giustifica il deficit, il deficit richiede una narrazione forte sul clima, la narrazione crea nell’opinione pubblica ulteriore domanda di azione concreta e quindi giustifica altro deficit.
La seconda riflessione è che quello che sta avvenendo sulle borse su rinnovabili da una parte (in discesa da qualche settimana) e petrolio dall’altra sui massimi di periodo non va a cambiare le tendenze di fondo. La ripresa globale procede veloce, la domanda di mobilità e di auto si riprende, mentre l’offerta è ancora composta in larga misura da energie fossili e auto tradizionali. Logico che i mercati premino in questo momento materie prime come il palladio, utilizzato nelle auto tradizionali e prendano qualche profitto, dopo la corsa dei mesi passati, sulle rinnovabili. Sappiamo però chi alla fine vincerà la corsa, perché l’esito è segnato.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.