rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

TRUMPFLATION

L’azionario vota Trump, i bond votano la Harris

La narrazione che ci racconta di un’inflazione che appartiene al passato, di una lunga serie di tagli dei tassi almeno fino alla fine del 2025 e di un orizzonte positivo, se non radioso, per i bond di ogni ordine e grado è tuttora dominante. È stata un po’ corretta nelle ultime settimane per la parte lunga della curva, ma l’idea del bull steepening, ovvero di rendimenti a breve-medio che scendono molto e di rendimenti a lungo che magari scendono poco, ma che comunque non salgono, ispira ancora le previsioni ufficiali delle grandi case per l’anno prossimo.

La narrazione che ci racconta di un’inflazione che appartiene al passato, di una lunga serie di tagli dei tassi almeno fino alla fine del 2025 e di un orizzonte positivo, se non radioso, per i bond di ogni ordine e grado è tuttora dominante. È stata un po’ corretta nelle ultime settimane per la parte lunga della curva, ma l’idea del bull steepening, ovvero di rendimenti a breve-medio che scendono molto e di rendimenti a lungo che magari scendono poco, ma che comunque non salgono, ispira ancora le previsioni ufficiali delle grandi case per l’anno prossimo.

Accanto a questa narrazione, che è sempre quella del solito soft landing, sono però tornati prepotenti prima il racconto del no landing e poi quello, nuovissimo, della ripresa brusca dell’inflazione già dal 2025. I mercati, giustamente, sono nervosi e frastornati.

Il no landing trova conferma nei dati macro. Perché continuare a pensare all’atterraggio, più o meno morbido, quando l’aereo dell’economia americana se ne sta piacevolmente in volo a un’altitudine del 3.4 per cento di crescita annualizzata (ultimo Nowcast della Fed di Atlanta sul terzo trimestre)?

La ripresa dell’inflazione, dal canto suo, rimane un’ipotesi legata alla crescita elevata, ma diventa una certezza per quei commentatori che collegano la possibile vittoria di Trump a uno e forse due punti percentuali di inflazione in più. Il risultato è che il Treasury decennale, dato un mese fa in partenza per un viaggio trionfale verso il 3 per cento (o sotto), viene oggi visto -Trump regnante- in convulsa ritirata verso quel 5 per cento da cui era partito giusto un anno fa.

Dato che i sondaggi, per alcune settimane favorevoli alla Harris, segnalano oggi una sostanziale parità e visto che i mercati sembrano ora considerare più probabile una vittoria repubblicana anche in Congresso, vale la pena rivisitare il programma di Trump e valutarne l’impatto inflazionistico.

Le ragioni per temere l’inflazione trumpiana sono tre. La prima è l’introduzione dei dazi del 60 per cento per i prodotti cinesi e del 10 per il resto del mondo. La seconda è la promessa di ridurre drasticamente, se non azzerare, l’immigrazione clandestina. La terza è l’impegno a rinnovare i tagli fiscali decennali del 2017, che i democratici lascerebbero invece scadere nel 2027.

Vediamole una per una, cominciando dai dazi. È scontato che arriverebbero? No. Certo, Trump e Vance li amano molto come idea, ma li intendono più come strumento di pressione che come effettiva misura commerciale. Naturalmente, per avere concessioni, bisogna essere credibili nella minaccia ma Trump, quando promette fuoco e fiamme e si comporta in modo volutamente imprevedibile, non fa altro che alzare il prezzo. Gli interlocutori, in questo modo, non possono mai essere sicuri che non faccia sul serio e sono costretti ad ammorbidirsi.

Trump, in altre parole, alzerà i dazi con lo spirito di chi inizia una trattativa mettendo la pistola sul tavolo, ma sarà disposto a ritirarli, per esempio, in cambio di investimenti diretti cinesi negli Stati Uniti o di concessioni europee sulle spese militari, tuttora al di sotto di quanto promesso in questi anni.

Se, alla fine, i dazi resteranno, vanno ricordate alcune cose. L’America, non è un’economia molto aperta e le sue importazioni sono solo il 15 per cento del Pil. L’import dalla Cina, in particolare, è il 16 per cento dell’import totale. I dazi verranno poi introdotti per gradi, con aumenti annuali, e non tutti in una volta. Per la Cina Trump potrà fare da solo, ma per una introduzione generalizzata avrà bisogno dell’approvazione dei due rami del Congresso, che avrà solo in caso di en plein repubblicano il 5 novembre. Senza l’en plein dovrà elevare i dazi prodotto per prodotto e paese per paese, con trattative separate e complicate.

I dazi, se applicati, avranno sicuramente un effetto negativo di breve sull’inflazione, ma non necessariamente sulla politica monetaria. In questi anni abbiamo assistito a frequenti ritocchi dell’Iva in molti paesi e ci siamo sempre detti che, i rialzi, producendo effetti di breve una tantum ed effetti di medio disinflazionistici (per la conseguente riduzione dei consumi), non andavano considerati nella determinazione del livello dei tassi di policy. I dazi, ricordiamo, sono imposte indirette come l’Iva.

Venendo all’immigrazione, un milione di persone all’anno fino al 2020 e tre milioni all’anno con Biden, Trump tornerà verosimilmente al milione del suo primo mandato. Se la crescita dell’economia continuerà ai ritmi attuali la disoccupazione tornerà a scendere e questo produrrà un rialzo del costo del lavoro. Il minore numero di immigrati, tuttavia, provocherà in compenso una riduzione dell’inflazione su affitti e abitazioni, oggi il principale fattore di spinta verso l’alto del Cpi.

Quanto al rinnovo dei tagli fiscali del 2017, la conseguenza sarà una mancata riduzione del disavanzo (e dell’inflazione da questo generata), ma non un suo aumento.

Accanto a questi effetti inflazionistici vanno poi considerati gli aspetti disinflazionistici del programma di Trump. Tra questi, il più importante sarà la forte deregulation, nelle intenzioni molto più radicale rispetto a quella del primo mandato. Ma anche il taglio minuzioso dei costi, affidato a Musk, produrrà qualche risultato. L’America non ha mai fatto una spending review e Musk, se vogliamo paragonare SpaceX alla Nasa, ha fatto crollare il costo del trasporto spaziale.

Detto questo, il mercato obbligazionario il 5 novembre voterà per la Harris, se non altro per la minore volatilità che la sua elezione comporterà nel breve. Rimaniamo comunque dell’idea che il decennale americano, chiunque vinca, difficilmente tornerà al 3.60 di ottobre. Vedremo verosimilmente il 4 con la Harris e il 4.50 con Trump. L’Europa, con la sua crescita debole e la sua inflazione in discesa, non sarà coinvolta dalle tensioni americane sui tassi.

L’azionario, dal canto suo, il 5 novembre voterà Trump (come le cripto). Deregulation, detassazione, dazi e più inflazione sono tutti fattori positivi per l’azionario americano. Che sarà però trattenuto nel suo slancio dal freno a mano tirato dei bond e da una Fed -Trump regnante- ritornata improvvisamente più arcigna.

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